A proposito di libri, è la narrativa di viaggio sul Viet Nam che notiamo vieppiù incrementarsi; è tuttavia una scrittura in cui spesso prevale l’elemento autobiografico, individuale, e con esso il facile sensazionalismo, talvolta la più sconcertante banalità. All’informazione e alla conoscenza si sostituiscono espedienti narrativi e semplificazioni che, tuttavia, mal s’accordano con la complessità di un Paese in forte accelerazione. Il viaggio coincideva, in un passato non lontano, con l’avventura, la scoperta di un luogo, l’incontro di popolazioni nella loro alterità. Oggi, in un tempo in cui è diffuso l’itinerario preconfezionato, organizzato e predisposto al dettaglio – come qualcuno ha scritto, “dall’aereo al caffè” -, cosa resta, dunque, dell’emozione di un viaggio e della sua meraviglia? Cosa rimane dell’“incanto”, di quel fenomeno straordinario che è, per qualcuno, null’altro che “sospensione volontaria dall’incredulità”? [WINKIN, Y., “Proposition pour une anthropologie de l’enchantement”, in RASSE P., MIDOL, N., TRIKI F., Unitè-diveristé. Les identités culturelles dans le jeu de la mondialisation, L’Harmattan, Paris 2001,169-179].
È pur vero che la maggior parte degli antropologi del turismo osserva il viaggiatore’ dall’esterno e da lontano, quasi a temerne il contatto. E numerose sono le opere in cui il turista viene esplicitamente dileggiato, o quanto meno trattato con ironia. Evita accuratamente, invece, di stigmatizzare “il povero turista imbecille, contrapposto al turista intelligente e colto”, Jean Chesneaux – nome assai noto ai “vietnamologi” -, autore, tra il resto, di un interessante saggio dedicato all’Art du voyage [CHESNEAUX J, L’art du voyage, Bayard, Paris 1999].
“Le differenze si misurano in ragione del denaro e del tempo […], la derrata più rara fra tutte – precisa. Viaggiare è andare lontano, prendere il proprio tempo, mutare itinerario, improvvisare. Il turista è compresso fra il tempo di cui può disporre ed un budget. Può recarsi in un’agenzia di viaggio e trovare modo di compiere un viaggio piuttosto ricco; ma può, anche all’interno di un circuito turistico organizzato, andare a curiosare in un supermercato, in una strada particolare, e non solamente visitare una pagoda o un tempio famoso […]. Per me il viaggio è innanzitutto uno sguardo sul mondo”. Da quando è in pensione, il Professor Chesnaux si dedica ai viaggi “come pratica culturale” e nei suoi itinerari – dalla Nuova Guinea all’Isola di Pasqua, dal Messico a Dakar, e poi in Asia orientale, nel Pacifico e così via – il piacere del viaggio si coniuga con la sua militanza attiva in vari movimenti (quello anti-nucleare ad esempio o con Greenpeace, di cui è presidente onorario). “L’arte del viaggio deriva da una pratica culturale – dice ancora Chesnaux – che esige di pensare viaggiando e dunque di scrivere quotidianamente, di riflettere sul luogo in cui ci troviamo e sull’apporto che ci proviene da ciò che vediamo”.
‘Istiga’ alla scrittura – ma ad una scrittura “solo per i propri occhi” e consiglia di conservare i ritagli di giornale, di annotare certe pubblicità e i graffiti sui muri… Ovunque “c’è il mondo e c’è l’immondo”, ricorda, con uno dei suoi celebri slogan; ogni città è, al tempo stesso, un altrove e un medesimo. Ogni città possiede una specifica identità, uno specifico profilo, ma ovunque ritroviamo stesse tendenze: grandi insiemi residenziali di basso livello, il consumo di massa dei supermercati, gli spettacoli volgari, gli schermi televisivi nelle strade. Viaggiare è aprire gli occhi sul mondo, ma anche sull’immondo… al di là delle immagini idealizzate e stereotipate. Visitare il mondo viaggiando significa comprendere lo spazio che si percorre. Osservare le realtà sociali che si incontrano, con occhio attento al ruolo della storia nella società in divenire.
Occorre, forse, come suggerisce Chesnaux, re-imparare a viaggiare e, in questo percorso, la narrativa di viaggio potrebbe, romanticamente, ancora esserci di stimolo e suggerirci quanto meno, “l’estasi della partenza e la trepidazione per quanto è ancora ignoto”.
L’odierna pubblicistica di viaggio – che inizia a rivolgere la sua attenzione al Vietnam, “destinazione del terzo Millennio, come recitano i più recenti dépliant turistici – tuttavia non sempre soddisfa il gusto di chi legge. Forse, “i tempi non sono mai cambiati”: la scrittrice inglese Vita Sackville-West, ammoniva che scrivere impressioni di viaggio è un piacere per il viaggiatore, ma è noioso per i lettori ed è anche, talvolta inutile.
Se i libri di viaggio dei grandi autori della narrativa che, ovviamente, non limitandosi alla mera descrizioni dei paesaggi visti, suffragata da impressioni più o meno verificate, esplorano identità e differenze, possono offrire formidabili strumenti conoscitivi per avvicinarci a Paesi e Popoli, i cosiddetti instant book turistici, possono talvolta sortire l’effetto contrario o non sortirne alcuno. Ed altrettanto si potrebbe dire per gli articoli redatti da chi, sceglie di scrivere di una meta piuttosto che di un’altra, a volta casualmente, o più semplicemente perché “è di moda”, a seguito di un primo, talvolta unico, viaggio in un Paese di cui sa poco e di cui, tutto sommato, poco gli interessa sapere. Così come quei turisti – e ci pare non siano pochi – che essendo in un determinato luogo, altro non fanno – e non a scopo comparativo – che rievocare vecchie mete visitate, viaggi compiuti… “Viaggiare – diceva ancora, del resto, Sackville West – è il più personale dei piaceri” e non v’è nulla di più ingombrante di un viaggiatore che con i suoi racconti diviene assillante. Ogni tentativo di comunicare ad altri la propria esperienza può essere infruttuoso e talvolta coincidere con un confuso sproloquiare. Purtuttavia, il desiderio di condividere le proprie esperienze pare essere insopprimibile.
di Emma Rondeau
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