Quarant’anni dopo la caduta di Saigon, il reporter che raccontò il massacro di My Lai visita per la prima volta il luogo dove i marines uccisero centinaia di civili. Un episodio che rafforzò in modo decisivo l’opposizione alla guerra del Vietnam
Da sapere
Lo scoop di Seymour Hersh
16 marzo 1968 una compagnia dell’esercito statunitense uccise 504 civili vietnamiti a My Lai e My Khe, due agglomerati di capanne vicini al villaggio di Son My, nella provincia di Quang Ngai. La guerra tra Vietnam del Nord (appoggiato da Cina e Unione Sovietica) e Vietnam del Sud (appoggiato dagli Stati Uniti) era cominciata nel 1955, e dal 1960 il coinvolgimento militare di Washington era cresciuto sempre di più. La notizia del massacro, raccontata nel 1969 da un articolo di Seymour Hersh scritto per l’agenzia di stampa Dispatch News Service, rafforzò l’opposizione dell’opinione pubblica alla guerra. L’esercito americano si ritirò nel 1973 e la guerra finì due anni dopo con la presa di Saigon da parte dei nordvietnamiti.
Nel villaggio di My Lai c’è un lungo fossato. La mattina del 16 marzo 1968 era pieno di cadaveri: decine di donne, bambini e anziani uccisi da giovani soldati statunitensi. Oggi, a 47 anni di distanza, quel fossato sembra ancora più largo di come me lo ricordavo dalle fotografie del massacro uscite sui giornali: il tempo e l’erosione hanno fatto il loro lavoro. Durante la guerra del Vietnam lì vicino c’era una risaia che ora è stata lastricata per facilitare l’accesso al villaggio: migliaia di turisti arrivano ogni anno per passeggiare tra le lapidi che ricordano quel terribile evento. Il massacro di My Lai fu un momento cruciale di quella assurda guerra. Un contingente statunitense di un centinaio di uomini, la compagnia Charlie, aveva ricevuto informazioni sbagliate e pensava di trovare un gruppo di vietcong o di loro simpatizzanti, invece si ritrovò in un pacifico villaggio dove la gente stava facendo colazione. Nonostante questo, i soldati violentarono le donne, incendiarono le case e rivolsero i loro M16 contro i civili disarmati.
Tra quelli che guidarono l’assalto c’era il tenente William L. Calley, che aveva abbandonato gli studi all’università di Miami per arruolarsi. All’inizio del 1969 quasi tutti i componenti della compagnia Charlie avevano completato il loro turno di servizio ed erano tornati a casa. All’epoca avevo 32 anni e lavoravo come reporter freelance a Washington. Deciso a capire com’era possibile che dei ragazzi avessero potuto fare una cosa del genere, passai settimane a cercarli. Molti di loro mi parlarono apertamente, e quasi tutti con sincerità, raccontandomi quello che avevano fatto a My Lai e come pensavano di vivere con quel ricordo.
I dettagli
Davanti alla commissione d’inchiesta dell’esercito alcuni soldati avevano ammesso di essere stati presenti alla strage, ma di non aver ubbidito quando Calley gli aveva ordinato di uccidere. Avevano detto che a sparare di più, insieme allo stesso Calley, era stato il soldato di prima classe Paul Meadlo. Era impossibile accertare la verità, ma uno dei soldati mi descrisse un momento che, come avrei scoperto in seguito, anche i suoi compagni ricordavano molto bene. Su ordine di Calley, Meadlo e altri avevano sparato una scarica dietro l’altra nel fossato e ci avevano lanciato dentro alcune bombe a mano. A quel punto avevano sentito un piagnucolio, che diventava sempre più forte: un bambino di due o tre anni coperto di fango e sangue si stava facendo strada tra i corpi e strisciava verso la risaia. Probabilmente la madre lo aveva protetto con il suo corpo. Calley lo aveva visto e, secondo i testimoni, lo aveva rincorso, lo aveva trascinato di nuovo fino al f fossato, l’aveva gettato dentro e gli aveva sparato. La mattina dopo il massacro, Meadlo era inciampato su una mina durante un normale giro di pattuglia e aveva perso il piede destro. Mentre aspettava di essere trasferito in elicottero in un ospedale da campo, aveva inveito contro Calley. “Dio ti punirà per quello che mi hai fatto fare”, ricordava di avergli sentito dire un compagno. “Caricatelo sull’elicottero!”, aveva gridato Calley. Meadlo aveva continuato a maledirlo fino all’arrivo dei soccorsi. Meadlo era cresciuto in una zona rurale nell’Indiana occidentale. Dopo molte ricerche trovai il numero di telefono di una famiglia Meadlo che viveva a New Goshen, una cittadina vicino a Terre Haute. Mi rispose una donna di nome Myrtle, che poi avrei scoperto essere sua madre. Le dissi che ero un reporter e che stavo scrivendo un articolo sul Vietnam. Le chiesi come stava Paul e se potevo andare a parlare con lui il giorno dopo. Mi disse che se volevo potevo provarci.
I Meadlo avevano una decrepita fattoria per l’allevamento delle galline. Quando arrivai con la mia macchina presa a nolo, Myrtle uscì ad accogliermi e disse che Paul era in casa, ma non sapeva se avrebbe voluto parlare con me né cosa avrebbe potuto dirmi. Era chiaro che non le aveva raccontato molto del Vietnam. Poi disse una cosa che sintetizzava bene quella guerra odiosa: “Gli ho mandato un bravo ragazzo e me l’hanno trasformato in un assassino”. Meadlo mi invitò a entrare e accettò di parlare con me. Aveva 22 anni. Si era sposato prima di partire per il Vietnam e lui e sua moglie avevano un figlio di due anni e mezzo e una figlia ancora in fasce. Nonostante l’amputazione, lavorava in fabbrica per mantenere la famiglia. Gli chiesi di mostrarmi la ferita e di dirmi come gliel’avevano curata. Si tolse la protesi e mi raccontò quello che aveva passato. Non ci volle molto prima che la conversazione si spostasse su My Lai. Meadlo continuava a parlare, era chiaro che stava disperatamente cercando di ritrovare un po’ di dignità. Senza mostrare troppa emozione, mi raccontò di quando Calley aveva dato l’ordine di uccidere.
Non giustificava quello che aveva fatto, ma disse che quella strage “gli aveva tolto un peso dalla coscienza”, per via di “tutti i compagni che avevamo perduto. Era stata una vendetta”. Meadlo mi raccontò quello che aveva fatto, fino nei minimi terrificanti dettagli. “Ci avevano detto che c’erano dei vietcong a My Lai e setacciammo il villaggio”, mi disse. “Appena arrivati lì cominciammo a radunare la gente, a riunirla in grandi gruppi. Ci saranno stati quaranta o quarantacinque civili in un grande cerchio al centro del villaggio. Calley disse a me e a un paio di altri ragazzi di tenerli d’occhio”. Ricordava che Calley era tornato una decina di minuti dopo e gli aveva detto: “Datti da fare. Li voglio morti”. Da tre o quattro metri di distanza, Calley “si mise a sparare su di loro. E poi mi disse di fare lo stesso. Io cominciai a sparare, ma gli altri non volevano. Perciò continuammo noi”. Meadlo calcolava di aver ucciso una quindicina di persone. “Stavamo eseguendo un ordine”, disse. “Pensavamo di fare la cosa giusta. In quel momento non mi creava nessun problema”.
Da un rapporto ufficiale era invece emerso che Meadlo era rimasto molto turbato dall’ordine di Calley. Quando il superiore gli aveva detto di “occuparsi di quel gruppo”, raccontò un altro soldato della compagnia Charlie, “Meadlo e un suo compagno si erano messi a giocare con i bambini, a dire alla gente dove sedersi e a distribuire caramelle”. Quando il tenente era tornato e aveva detto che li voleva morti, “Meadlo lo aveva guardato incredulo e aveva chiesto: ‘Devo ammazzarli?’”. Calley aveva risposto di sì e, a detta di un altro soldato, lui e Meadlo “avevano aperto il fuoco”. Ma poi Meadlo “era scoppiato a piangere”.
Mike Wallace della Cbs era interessato alla mia intervista e Meadlo accettò di raccontare di nuovo la sua storia in tv. Passai la notte prima della trasmissione su un divano a casa dei Meadlo e la mattina dopo presi un aereo per New York con Paul e sua moglie. Avevamo tempo per parlare, e scoprii che Meadlo aveva passato settimane in riabilitazione in un ospedale militare in Giappone. Una volta tornato a casa, non aveva raccontato nulla della sua esperienza in Vietnam. Una notte, poco dopo il suo ritorno, sua moglie era stata svegliata da un pianto isterico che veniva dalla stanza dei bambini. Si era precipitata lì e aveva trovato Paul che scuoteva violentemente il figlio.
A parlarmi per la prima volta di My Lai era stato Geofrey Cowan, un giovane avvocato di Washington che si batteva contro la guerra. Cowan non aveva informazioni specifiche, ma aveva sentito dire di un soldato che era impazzito e aveva ucciso decine di civili viet namiti. Già tre anni prima, quando lavoravo al Pentagono per l’Associated Press, avevo saputo da alcuni ufficiali di ritorno dal fronte che in Vietnam stavano uccidendo i civili. Un giorno, mentre cercavo di approfondire l’informazione di Cowan, incontrai un giovane colonnello dell’esercito che avevo conosciuto quando ero al Pentagono. In Vietnam era stato ferito a una gamba e, mentre era in ospedale, aveva scoperto che lo avevano promosso generale. L’avevano messo a lavorare in un ufficio che si occupava dell’andamento quotidiano della guerra. Quando gli chiesi cosa sapesse di quel soldato senza nome, mi lanciò uno sguardo tagliente e rabbioso e cominciò a battere con la mano sul ginocchio: “Quel ragazzo, Calley, non ha sparato a nessuno più in alto di così”, mi disse. A quel punto avevo un nome. In una biblioteca locale trovai un breve articolo del New York Times sul tenente Calley, che era stato accusato dall’esercito di aver ucciso un numero non speciicato di civili nel Vietnam del Sud. Rintracciai Calley, l’avevano nascosto in un ufficio di Fort Benning, a Columbus, in Georgia. A quel punto qualcuno dell’esercito mi aveva già fatto leggere il documento top secret in cui Calley veniva accusato dell’omicidio premeditato di 109 “esseri umani orientali”.
Calley non sembrava cattivo. Era un uomo magro e nervoso sui 25 anni, dalla pelle chiara, quasi trasparente. Si sforzava di sembrare un duro. Dopo parecchie birre mi raccontò che a My Lai lui e i suoi soldati avevano ucciso molti nemici in un furioso scontro a fuoco. Parlammo tutta la notte. A un certo punto, Calley si scusò e andò in bagno. Lasciò la porta leggermente aperta e vidi che vomitava sangue.
Nel novembre del 1969 scrissi cinque articoli su Calley, Meadlo e il massacro. Andai a proporli alle riviste Life e a Look, ma li rifiutarono, così mi rivolsi a una piccola agenzia di Washington molto critica nei confronti del conflitto, il Dispatch News Service. Era un periodo di tensioni e disordini crescenti. Richard Nixon aveva vinto le elezioni presidenziali del 1968 promettendo di mettere fine alla guerra, ma il suo vero piano era vincerla con un’escalation di attacchi e l’uso di bombardamenti segreti. Nel 1969 morivano ancora 1.500 soldati statunitensi al mese, quasi lo stesso numero dell’anno precedente. Dagli articoli degli inviati al fronte appariva sempre più chiaro che quel conflitto era moralmente immotivato, strategicamente perdente e molto diverso da come le autorità di Washington e Saigon lo descrivevano all’opinione pubblica.
La versione di Cong
Sono andato per la prima volta a My Lai (come l’esercito statunitense chiamava il villaggio) qualche mese fa, con la mia famiglia. Tornare sulla scena del delitto è un cliché per i reporter di una certa età, ma non ho potuto resistere. All’inizio del 1970 avevo chiesto al governo sudvietnamita il permesso di andarci, ma ormai l’inchiesta interna del Pentagono era cominciata e nessun estraneo poteva avvicinarsi alla zona. Nel 1972 quando lavoravo per il New York Times, ero stato a Hanoi, nel Vietnam del Nord. Nel 1980, cinque anni dopo la caduta di Saigon, ero tornato di nuovo in Vietnam a fare una serie di interviste per un mio libro e sempre a scrivere per il New York Times. Credevo di sapere tutto, o quasi, di quello che c’era da sapere sul massacro. Ma naturalmente mi sbagliavo.
My Lai è al centro del Vietnam, non lontano dalla strada nazionale 1, che collega Hanoi a Ho Chi Minh, come si chiama oggi Saigon. Il direttore del museo di My Lai, Pham Thanh Cong, è uno dei sopravvissuti al massacro. Appena ci siamo incontrati Cong, un uomo arcigno e massiccio sulla sessantina, mi ha detto ben poco della sua esperienza personale e si è limitato a ripetere le frasi convenzionali che tutti conosciamo. Ha definito i vietnamiti “un popolo cordiale” e ha evitato di assumere un tono di accusa. “Perdoniamo, ma non dimentichiamo”, ha detto. Più tardi, mentre eravamo seduti su una panchina davanti al piccolo museo, mi ha descritto il massacro come lo ricordava lui, che all’epoca aveva 11 anni.
Quando gli elicotteri statunitensi erano atterrati nel villaggio, lui, sua madre e i suoi quattro fratelli erano in una sorta di rifugio all’interno della loro capanna dal tetto di paglia. I soldati gli ordinarono di uscire e poi li spinsero dentro di nuovo, lanciando una bomba a mano dietro di loro e sparando. Cong fu colpito alla testa, al fianco destro e a una gamba, e svenne. Quando riprese conoscenza, si trovò in mezzo ai cadaveri accatastati della madre, delle tre sorelle e del fratellino di sei anni. Probabilmente i soldati pensarono che fosse morto anche lui. Nel pomeriggio, quando gli elicotteri ripartirono, suo padre e i pochi altri sopravvissuti tornarono a seppellire i morti e lo trovarono.
“Non dimenticherò mai quel dolore”, ha detto Cong più tardi, mentre pranzava con me e la mia famiglia. Mi ha raccontato che qualche anno prima un reduce di nome Kenneth Schiel, che era stato a My Lai, aveva visitato il museo – l’unico uomo della compagnia Charlie ad averlo fatto – mentre partecipava alle riprese di un documentario di Al Jazeera in occasione del quarantesimo anniversario del massacro. Schiel si era arruolato nell’esercito appena uscito dalle superiori a Swartz Creek, una cittadina del Michigan vicino a Flint, e in seguito alle indagini successive era stato accusato di aver ucciso nove abitanti del villaggio (poi è stato assolto). Nel documentario c’è anche una sua conversazione con Cong, a cui avevano detto che era un reduce del Vietnam, ma non che era stato a My Lai. Nel video Schiel dice a chi lo intervista: “Se ho sparato? Sì, ho sparato fino a quando non mi sono reso conto che era sbagliato. Non dirò se ho ucciso qualche abitante del villaggio”. Nella conversazione con Cong, quando ormai è chiaro che aveva partecipato al massacro, Schiel appare ancora meno disponibile. Continua a ripetere che vuole “scusarsi con la gente di My Lai”, ma non va oltre. “Mi chiedo sempre perché è successo. Non lo so”. Quando Cong gli chiede: “Cos’ha provato mentre sparava contro i civili? È stato difficile per lei farlo?”, Schiel risponde che non era tra i soldati che avevano sparato ai gruppi di civili. “Allora forse è venuto a casa mia e ha ucciso la mia famiglia”, replica Cong.
Il resto della conversazione è stato trascritto ed è possibile leggerlo nel museo. Schiel dice: “L’unica cosa che posso fare ora è scusarmi”. Cong, che sembra sempre più agitato, continua a chiedergli di confessare apertamente i suoi crimini, e Schiel ripete: “Mi dispiace, mi dispiace”. Quando Cong gli chiede se, una volta rientrato alla base, era riuscito a mangiare, Schiel scoppia a piangere. “La prego, non mi faccia altre domande”, dice, “non riesco a controllarmi”. Poi l’americano chiede a Cong se può partecipare alla cerimonia di commemorazione, e Cong risponde: “Sarebbe un’offesa. Gli abitanti del villaggio si arrabbierebbero molto se sapessero che lei partecipò al massacro”. Prima di lasciare il museo ho chiesto a Cong perché era stato così implacabile con Schiel. Il suo volto si è indurito e mi ha risposto che non aveva nessun interesse ad alleviare la sofferenza di un reduce di My Lai che si era rifiutato di confessare quello che aveva fatto. Il padre di Cong collaborava con i vietcong, era sopravvissuto al massacro ma era morto in combattimento nel 1970 durante uno scontro con un’unità dell’esercito statunitense. Cong era andato a vivere in un villaggio vicino con alcuni parenti che allevavano bestiame. Era riuscito a tornare a scuola solo dopo la fine della guerra.
La scelta dei reduci
Anche alcuni reduci statunitensi sono tornati a vivere in Vietnam. Chuck Palazzo era cresciuto in una famiglia difficile di Arthur avenue, nel Bronx, e dopo aver abbandonato la scuola si era arruolato nei marines. Era arrivato a Danang nel 1970, con un volo charter, e mentre l’aereo atterrava aveva visto le bare allineate sulla pista. “Solo allora mi resi conto che ero in guerra”, ha detto. Dopo aver lasciato i marines, Palazzo si laureò in informatica e trovò lavoro. Ma, come molti reduci, era “tornato nel mondo” con un forte disturbo post-traumatico da stress ed ebbe problemi di dipendenza. Il suo matrimonio fallì e perse diversi lavori. Nel 2006 ha preso la decisione “egoistica” di tornare a Ho Chi Minh. “Dovevo affrontare i miei fantasmi per superare il trauma”, mi ha detto. “Ma appena arrivato mi sono innamorato dei vietnamiti”. Voleva fare tutto quello che poteva per le vittime dell’Agente arancio. Per anni l’Associazione dei reduci, con il pretesto dell’incertezza delle prove, si era rifiutata di ammettere qualsiasi collegamento tra quella sostanza e le malattie, compreso il cancro, che hanno colpito molte delle persone esposte all’Agente arancio. “Durante la guerra il comandante della compagnia ci aveva detto che era uno spray per le zanzare, ma vedevamo che distruggeva tutta la vegetazione”, mi ha raccontato Palazzo. Ad Hanoi ho conosciuto Chuck Searcy, un uomo alto sulla settantina con i capelli grigi, cresciuto in Georgia. “Pensavo che il presidente Johnson e il congresso sapessero quello che stavamo facendo in Vietnam”, mi ha detto. Nel 1966 aveva lasciato il college e si era arruolato. Era un analista dell’intelligence e faceva parte di un’unità di stanza vicino all’aeroporto di Saigon che elaborava e valutava le analisi e i rapporti degli americani. “Nel giro di tre mesi tutti i miei ideali di giovane patriota georgiano si erano infranti, e avevo cominciato a chiedermi che razza di popolo eravamo”, mi ha raccontato. “Le informazioni che leggevo erano tutte parte di una grande menzogna”.
Evidentemente neanche i sudvietnamiti davano molto credito alle informazioni segrete che gli passavano gli statunitensi. A un certo punto un collega aveva comprato un pesce al mercato e si era accorto che era incartato con uno dei rapporti top secret della sua unità. “Quando finalmente me ne andai, nel giugno del 1968”, ha concluso, “ero furioso e amareggiato”. Searcy terminò il suo servizio nell’esercito in Europa. Nel 1992 tornò in Vietnam e alla fine decise di unirsi agli altri reduci che si erano trasferiti lì. Per un periodo ha collaborato a un programma di sminamento.
In Vietnam gli Stati Uniti hanno sganciato il triplo delle bombe sganciate nella seconda guerra mondiale. Tra la fine del conflitto e il 1998 più di centomila civili vietnamiti, circa il 40 per cento dei quali bambini, sono rimasti uccisi o feriti da materiale inesploso.
Dopo la guerra, per più di vent’anni gli Stati Uniti si sono rifiutati di pagare i danni provocati dalle bombe e dall’Agente arancio, poi nel 1996 Washington ha cominciato a stanziare un piccolo fondo per la rimozione delle mine. Dal 2001 al 2011anche il Vietnam veterans memorial fund ha contribuito a finanziare il programma. All’inizio del 1969 quasi tutti i componenti della compagnia Charlie erano tornati a casa o erano stati assegnati a un’altra unità. L’operazione di insabbiamento stava funzionando. Ma a quel punto un coraggioso reduce di nome Ronald Ridenhour scrisse una lettera dettagliata su un “sanguinoso” massacro e ne inviò una copia a trenta persone, tra cui c’erano funzionari del governo e membri del congresso. Nel giro di qualche settimana la lettera arrivò al quartier generale dell’esercito in Vietnam.
Durante il mio viaggio un funzionario di Hanoi mi ha chiesto di fare una sosta all’ufficio provinciale della città di Quang Ngai, prima di percorrere le poche miglia che la separano da My Lai. Lì mi è stata regalata una guida della provincia appena pubblicata che contiene la descrizione dettagliata di un altro massacro commesso dagli americani durante la guerra, quello nel villaggio di Truong Le, alla periferia di Quang Ngai. Secondo la descrizione, nel corso di una ricognizione un plotone arrivò a Truong Le alle sette di mattina del 18 aprile 1969, poco più di un anno dopo My Lai. I soldati trascinarono donne e bambini fuori dalle case e poi diedero fuoco al villaggio. Tre ore dopo, sempre secondo il rapporto, tornarono e uccisero 41 bambini e 22 donne, lasciando vive solo nove persone. Evidentemente dopo My Lai ben poco era cambiato.
Nel 1998, qualche settimana prima del trentesimo anniversario del massacro, un funzionario a riposo del Pentagono, Donald Stewart, mi diede una copia di un rapporto mai reso pubblico dell’agosto 1967, che dimostrava che la maggior parte dei soldati statunitensi inviati nel Vietnam del Sud non erano consapevoli di quali fossero le loro responsabilità in base alle convenzioni di Ginevra. All’epoca Stewart era a capo della sezione investigativa della direzione servizi ispettivi del Pentagono. Il suo rapporto, scritto dopo mesi di viaggi e centinaia di interviste, era stato stilato su richiesta di Robert McNamara, segretario alla difesa durante le presidenze Kennedy e Johnson. Stewart aveva scritto che molti dei soldati intervistati “si sentivano in diritto di sostituire il loro giudizio personale alle norme delle convenzioni di Ginevra. Ed erano soprattutto i più giovani e inesperti ad affermare di aver maltrattato o ucciso dei prigionieri, nonostante fossero stati informati” di quanto prevedeva il diritto internazionale.
McNamara aveva lasciato il Pentagono nel febbraio del 1968, e il rapporto non era mai stato pubblicato. In seguito Stewart mi ha detto che ne capiva il motivo: “Gli americani mandavano laggiù i loro figli diciottenni, e non volevamo fargli sapere che tagliavano le orecchie alla gente. Tornai dal Viet nam pensando che ormai la situazione era fuori controllo. Capivo benissimo Calley”.
A quanto sembra, lo capiva anche Mc-Namara. Alla fine del 1969, quando scrissi di My Lai, non sapevo nulla dello studio di Stewart, ma sapevo che McNamara era stato informato anni prima degli abusi che i soldati statunitensi commettevano in Viet nam. Dopo la pubblicazione del mio primo articolo sul massacro, Jonathan Schell, un giovane giornalista del New Yorker che nel 1968 aveva pubblicato un devastante resoconto dei bombardamenti su Quang Ngai e una provincia vicina, mi chiamò. Il suo articolo, che poi sarebbe diventato un libro,
The military half, dimostrava in sostanza che i soldati statunitensi, convinti che i vietcong fossero trincerati nella regione centrale del paese e stessero raccogliendo consensi, non facevano distinzione tra combattenti e non combattenti nella zona che comprendeva My Lai.
Il segreto di McNamara
Nel 1967 Schell era tornato dal Vietnam del Sud devastato da quello che aveva visto. Veniva da una illustre famiglia newyorchese, il padre era un avvocato di Wall street e patrono delle arti, la loro casa a Martha’s Vineyard era vicina a quella di Jerome Wies ner, l’ex consulente scientiico di John F. Kennedy. Wiesner, che all’epoca era rettore del Massachusetts institute of technology (Mit), era coinvolto con McNamara in un progetto per la costruzione di una barriera elettronica che avrebbe impedito ai nordvietnamiti di inviare materiale bellico a sud lungo il sentiero di Ho Chi Minh. Schell gli aveva detto quello che aveva visto in Vietnam e Wiesner, sconvolto quanto lui, aveva fatto in modo che incontrasse McNamara. Poco dopo Schell era andato a Washington a parlare con il segretario alla difesa. Schell mi disse che non gli era piaciuto dover fare rapporto al governo prima di scrivere il suo articolo, ma aveva ritenuto di doverlo fare.
McNamara aveva chiesto che quell’incontro rimanesse segreto e aveva detto che non avrebbe fatto nulla per impedirgli di pubblicare l’articolo. Gli aveva anche messo a disposizione un ufficio del Pentagono dove poteva dettare i suoi appunti. Ne erano state fatte due copie, e McNamara aveva detto che avrebbe usato la sua per avviare un’inchiesta sugli abusi di cui Schell gli aveva parlato.
L’articolo era stato pubblicato all’inizio dell’anno successivo. Schell non aveva avuto più notizie da McNamara e non c’era stato nessun segno di cambiamento della linea politica. Poi erano usciti i miei articoli su My Lai e Schell aveva chiamato McNamara, che nel frattempo aveva lasciato il Pentagono per diventare presidente della Banca mondiale. Gli aveva ricordato di avergli consegnato un resoconto dettagliato delle atrocità commesse nella zona di My Lai e che forse a quel punto era importante parlare del loro incontro. McNamara gli aveva detto che avevano concordato di mantenerlo segreto e aveva insistito perché rispettasse la sua promessa. Schell voleva un consiglio da me. Ovviamente avrei preferito che raccontasse tutto, ma gli dissi che se aveva fatto un patto con McNamara doveva rispettarlo. Schell mantenne la parola.
In un saggio in memoria di McNamara pubblicato su The Nation nel 2009, ha raccontato della sua visita ma non ha fatto cenno a quel loro accordo. A quindici anni di distanza, scriveva Schell, aveva saputo da Neil Sheehan, l’inviato di guerra autore di Vietnam. Una sporca bugia (Piemme 2003), che McNamara aveva mandato i suoi appunti a Ellsworth Bunker, l’ambasciatore statunitense a Saigon. Apparentemente all’insaputa di McNamara, a Saigon non avevano nessuna intenzione di indagare sui fatti che Schell aveva denunciato ma piuttosto di screditarlo e di fare tutto il possibile per impedire la pubblicazione di quel materiale.
Qualche mese dopo l’uscita dei miei articoli, la rivista Harper’s pubblicò un estratto da un libro che stavo scrivendo e che si sarebbe intitolato
My Lai 4: a report on the massacre and its aftermath. L’estratto era un resoconto molto più dettagliato di quello che era successo, e sottolineava che nei mesi precedenti al massacro i soldati della compagnia di Calley si erano abbrutiti. Il figlio ventenne di McNamara, Craig, che era contrario alla guerra, mi chiamò e disse che aveva lasciato una copia della rivista nel salotto del padre. Poco dopo l’aveva trovata nel caminetto. Quando si ritirò dalla vita pubblica, McNamara partecipò alla campagna contro le armi atomiche e cercò di farsi assolvere per il ruolo svolto nella guerra del Vietnam. In un memoriale del 1995, In retrospect: the tragedy and lessons of Vietnam, ammetteva che quella guerra era stata un “disastro”, ma non esprimeva quasi nessun rimorso per i danni provocati al popolo vietnamita e ai soldati americani come Paul Meadlo. “Sono molto fiero di quello che ho fatto e mi dispiace molto se, per ottenere quei risultati, ho commesso degli errori”, dichiarava al regista Errol Morris in un documentario del 2003 intitolato The fog of war. Alcuni documenti desecretati degli anni in cui McNamara era al Pentagono rivelano che, nei suoi rapporti personali al presidente Johnson, aveva ribadito più volte lo scetticismo sulla guerra in Vietnam, ma non aveva mai espresso quei dubbi in pubblico. Craig McNamara mi ha raccontato che sul letto di morte suo padre gli ha detto di “avere la sensazione che Dio l’avesse abbandonato”. E quella tragedia non riguardava solo lui.
L’AUTORE
Seymour Hersh
è un giornalista statunitense. Nel 1970 ha vinto il premio Pulitzer per le sue inchieste sulla guerra del Vietnam, in particolare per aver svelato il massacro di My Lai. Nel 2004, durante la guerra in Iraq, ha rivelato, sul New Yorker, le torture sui detenuti nel carcere di Abu Ghraib ordinate dai servizi segreti statunitensi.
Fonte: Rivista Internazionale 1109 | 3 luglio 2015
Tratto da: Seymour Hersh, The New Yorker, Stati Uniti